Sembra che le ricette non riportino ancora le variazioni e adattamenti in conseguenza dell’introduzione delle colture americane (patate, pomodoro e le altre solanacee)(1). Sono le stesse dei secoli precedenti, sviluppate sulle offerte di mercato agricolo europeo e sul largo consumo delle spezie.
Benchè siano rare le descrizioni dei pranzi e banchetti in grande stile nei quali sovente si faceva sfoggio delle nuove invenzioni culinarie, tutte dovute all’arguzia di rinomati cuochi, abbiamo succinte notizie sulle abitudini alimentari, riportate con solo scopo di cronaca o di arricchimento dei racconti, aventi il più delle volte per oggetto altri interessi.
La frugale cena consumata da padre Camillo de Lellis, presso i frati cappuccini di Loreto Aprutino è così raccontata: “me ne andai a trovar li compagni che stavano in una stanza sedendo a Tavola nel luogo, dove sogliono mangiar li Frati, dove anch’io mi assettai per mangiare e vi trovai che c’erano alcuni tozzi, l’insalata et una menestra (…) in quel boccaletto di vino, quale era buono com’una malvasia” (2)
Altro personaggio delle cui parole ci serviremo spesso nel nostro discorso, è il padre Serafino Razzi, domenicano, che nel suo viaggio in Abruzzo del 1576. potè deliziarsi della frescura bucolica della Villa di Messer Giovanni Martino Peppo, trovandosi presso Vasto e di “fichi maturi di più maniere, pere moscardelle soavissime, ciriege amarine in gran copia: mele nane di notevole grossezze: susine assai: uva crespina matura e gialla, spigo, e mortella fiorita, et odorifera” (4). Della varietà di frutti sicuramente doveva basarsi l’alimentazione tardo estiva dei diversi ceti sociali, considerata l’abbondanza dei prodotti ed il loro buon mercato; non è un caso se il “Caporale” della Guardia della Torre di Punta Penne, gli offri: pane, vino, poponi, uve, e fichi, con formaggio” (5).
Ben più frugale il trattamento riservatogli dai frati cappuccini di Lettomanoppello che nel mese di giugno dello stesso anno, non ebbero altro da offrirgli che: “pane, vino e ciriege”.
Se come si suol dire i “fagioli sono la carne dei poveri”, nelle colline abruzzesi le fave secche e fresche sono i legumi che salvano dalle carestie e dalla fame. Le stagioni propizie erano l’estate e l’autunno, in cui abbondavano la frutta ed i raccolti mentre decisamente infausti l’inverno e la primavera, ancora oggi nella tradizione orale contadina la “costa di maggio” – nel senso di difficoltà – è metafora di crisi alimentare, scarseggiando in questo mese le provviste ei prodotti dei campi. L’andamento stagionale era presagio della sopravvivenza o meno della famiglia: un periodo di siccità causava inevitabilmente la carestia i cui effetti erano disastrosi; provvidenziali furono le distribuzioni di padre Camillo de Lellis di fichi secchi, legumi, fave e noci, conservati nelle dispense del convento bucchianichese, durante la carestia del 1612 (6). Altri fatti calamitosi potevano compromettere definitivamente i sistemi di approvvigionamento, come successe a Teramo nel 1547, quando per causa delle abbondanti piogge, tutti i mulini furono travolti e distrutti dai fiumi in piena. Le fave fresche e secche salvarono dalla carestia. Ricorda l’Antinori: “Nel maggio per una dirotta pioggia e continua di due giorni e due notti, ingrossarono i fiumi di maniera che andarono in rovina tutti i molini, e si viddero galleggiare per le acque le tramogge, i rastrecani, i mazzetti, e gli altri arnesi de Molinarj, consumate la farina da cittadini, e due Panettieri, né si potendo macinare si patì di pane molti giorni, ed alcuni ebbero necessità di ricorrere a minestre di fave o fresche o secche, ed altri a focacce impastate con farina fatta pel mano delle macinelle dei farri e c’ebbe nulla di meno abbondanza d’ogni cosa” (7). Durante le feste la varietà alimentare presupponeva maggiori disponibilità dei prodotti nei mercati (8). Sulle tavole dei ricchi erano varie le pietanze: i pani di grano, segala, spelta e farro erano mangiati con formaggio “cascio de leje e cascio sardesco” (). insaccati di maiale “presuntj, salsiccionj”, sardelle sotto sale e le carni di animali domestici e della selvaggina cacciata nei querceti (10). Si preparavano minestre, maccheroni e lasagne (in vari contratti di matrimoni si elenca spesso la cocchiara da macchiaroni) condite con salse speziate a base di “azongia” (sugna) e strutto: a queste si associavano pappe di farina, ceci, legumi orientali, le uova e pietanze più sostanziose.
Ben diversa doveva essere l’alimentazione del povero e degli ammalati; per quest’ultimi padre Camillo de Lellis voleva i cibi di migliore qualità e sostanziosi che non indugiava a preparare con le sue mani (“ma anco li coceva l’ova e bruscava il pane”) (11). Il banchettare delle classi agiate soleva svolgersi nel fasto assomigliando più ad un rito che ad una semplice esigenza fisiologica. La bella tavola”. il”buon servire”, facevano da coronamento in ogni banchetto; i buoni cibi con il loro aroma e sapore erano l’esibizione di quell’arte della presentazione nelle forme, colori e varietà, già in uso nelle epoche precedenti ma che in tale periodo sembravano soddisfare ricercatezze di palato più raffinate. La buona tavola esigeva la divisione tra i diversi ceti; i commensali si ritrovano ad essere accomunati dai gusti ma anche da altri interessi, così il banchetto diventava il modo eloquente di assaporare nuovi gusti, e sperimentare più equilibrate composizioni di aromi spezie e alimenti tendenti a privilegiare le qualità nutritive intrinseche di ogni cibo e non solo i connotati decorativi, ma anche modo e luogo dove trovare i piaceri della convivialità e delle confidenze. Sempre più i signori avevano la loro tavola diversa da quella dei servi e sempre più gli spazi fisici dell’abitare trovavano la loro varietà nei diversi usi (la cucina era una stanza diversa dalla sala da pranzo o dal tinello) (12). Di questa diversità ne diede testimonianza Padre Serafino Razzi nel suo racconto del 18 settembre 1577 di una visita al porto di Vasto:
“ma prima che sedessimo noi a tavola, vedemmo sotto coperta in altro appartamento mangiare circa venti fanciulli, da loro chiamati mozzi, e pigliammo piacere sentirgli recitare con alta voce, et inginocchioni, tutto il padre nostro, l’Ave Maria e la Salve Regina. Dopo sedendo nel tavolato, e pavimento, a una bassa tavola, con silenzio mangiarono biscotto con fave col guscio in più piatti, per la tavola scompuliti. Et osservai come la maggior parte di loro haveano i mestolini di legno per meglio raccorre dette fave, e ha dato loro da bere vino annacquato al bisogno. In altra parte era il Tinello degli huomini fatti con tavola lunga et alta, e con tovaglia, e banchi da sedere i bombardieri con altri officiali haveano il loro tinello appartato…..dicono come i capponi della nave sono il biscotto bagnato nell’aceto, et olio, per essere molto gustevole, e buono per chiunque naviga il mare”.
Note
(1) L’ordinamento colturale dei terreni agricoli dipendeva dalle variazioni climatiche ma anche dall’introduzione di piante d’oltreoceano. Con l’introduzione di nuove piante la cultura culinaria potè disporre di nuovi prodotti e di conseguenza di nuove invenzioni di ricette.
VILLANI Pasquale, Mezzogiorno e rivoluzione, Universale Laterza, Bari,
1977. pag. 233.
(2) Processo Informativo Teatino sulla canonizzazione di S.Camillo de Lellis conservato in Archivio della Casa generalizia Camillia- Roma, f. 144, test. di Antonio dell’Abbate di Bucchianico. pag. 160.
(3) RAZZI Serafino. Viaggio in Abruzzo alla fine del ‘500, Ed. Polla, Cerchio (Aq), 1984, pag. 73.
(4) RAZZI, op. cit. pag. 84.
(5) CICATELLI Sanzio, Vita del P. Camillo de Lellis, manoscritto del 1614. stampato a cura di P. Piero Sannazzaro, Casa Generalizia Camilliani, Roma,1980.
(6) ANTINORI Anton Ludovico. Annali d’Abruzzo, riproduzione anastatica del manoscritto conservato presso la Biblioteca Provinciale dell’Aquila, ed. Forni, Bologna, 1972, vol. XIX, pag. 284.
(7) Per l’informazione sui prodotti presenti sul mercato si possono consultare i Capitoli di Lanciano in: LA MORGIA Nicola. Gli Statuti antichi dell’Universitas Lancianese. Ed. Itinerari. Lanciano, 1974. Sul pane : che faranno pane a vendere lo debbiano fare bianco e nero bene lavato, asciutto e cotto” (pag.95). Il pesce salato “il pizzicaroli et forestieri, quali potevano o facevano portare pesce sabato in detta città” (pag. 120). Carne d’agnello: tutte quelle persone che vorranno fare la carne di Agnelli a vendere siano tenuti incominciare la Pascha et seguitare di continuo e quelli che non tagliavano dal principio della Pascha non possano tagliare per tutto il mese di maggio: ma le altre carni vaccine, pecorine. castrati, caporetti, non si possono prohibire sotto pena di carlini quindici ” (pag.123). Sulla vendita dei prodotti: “si ordina che nessuna persona presuma vendere nessuna parte di carne fresca et salata, pesce, cacio, ricotte fresche, et salate alle Beccone come nelle botteghe (…) se non gli è stato fatto prima il prezzo dalla Catapani. (pag. 82) Si vendevano interiora di animali, fegati, carne di agnello, capretto, castrato, pecore, scorofe, bue, vacca e “grogni, orecchie, piedi insino alle ginocchia” ( pag. 88). Sull’uva: “ne presuma vendere altra sorte d’uva che di moscatello pergolo, uva pane, uva donnale, precaccio et malvasia senza licentia del sindaco” (pag.84).
(8) Notaio Nonna Giovannangelo di Chieti, Atto del 9 aprile 1607, vol. 1607, pag. 63 recto, n. 2399, conservato presso l’Archivio di Stato di Chieti. (9) “una volta in Bocchianico essendogli stati donati dui beccafichi di un suo parente pregando a mangiarseli lui solo, come cose novelle, e che alhora cominciavano a comparire, esso gli accetto volentieri; et havendoli fatto arrostire la sera, volse ad ogni modo che tutti n’assaggiassero facendoli dividere, o più tosto minuzzare in dieci parti, essendo alhora tanti in numero quelli di detta famiglia” (Sanzio Cicatelli, Vita del P.Camillo de Lellis, Roma,
ed.1620. pag. 268). (10) Processo Informativo Teatino, op. cit. Summarium Additionale, pag. 2
test. Giovanni Zaccaria.
(11) FLOUNDRIN Jean-Louis. La distinzione attraverso il gusto, in Philippe Aries-George Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Ed. Laterza. Bari, pag.205.
(12) RAZZI, op. cit.. pag.177.